Pubblichiamo il testo della lettera che è stata inviata al Giornale di Brescai in ricordo del professor Romano Colombini.
Caro Direttore,
la scomparsa di Romano Colombini, splendida figura della Resistenza e del mondo della Scuola e della Cultura della nostra città, mi sollecita a condividere con lei e con i lettori del Suo giornale qualche considerazione.
Negli ultimi tempi Brescia e i bresciani hanno perso, una dopo l’altra, molte delle figure più rappresentative del mondo della Resistenza: ultimo in ordine di tempo, il prof. Colombini, che da giovanissimo studente fu una staffetta delle “Fiamme Verdi”, impegnato soprattutto nella diffusione del giornale «il ribelle». Con una punta di soddisfazione e d’ironia, paludate dietro il suo aplomb di uomo schivo, si vantava – per così dire – di avere, in più occasioni e nottetempo, infilato sotto la porta di casa di un parente apertamente schierato con la Repubblica di Salò (e, anzi, con qualche ruolo di responsabilità nel partito) quel foglio clandestino, quale segno di ribellione e di volontà di riscatto al quale intendeva portare il suo contributo.
Romano Colombini ha trasferito lo spirito di quel suo fervido antifascismo giovanile in ciò che ha compiuto nel resto della sua vita. Una vita dedicata alla formazione dei giovani: dapprima come professore, poi come preside, poi come presidente della Commissione scuola dell’ANPI “Dolores Abbiati”, dove ho avuto la fortuna di conoscerlo e di poterne apprezzare la grande capacità di ascolto, di dialogo, di confronto, unite alla delicatezza e all’attenzione per la dimensione “plurale” della società contemporanea. Un uomo per cui il rispetto della diversità – compresa quella dell’avversario – era il punto di partenza di ogni ragionamento: questa è stata, per me, una delle lezioni più efficaci e concrete di cosa significhi la parola “democrazia”.
Generazioni di studenti hanno potuto beneficiare della sua testimonianza, sempre lucida e mai faziosa, proposta con spirito educativo e mai imposta d’autorità; un’attenzione che derivava dalla piena consapevolezza di un fatto d’evidenza storica, che talvolta sfugge anche a chi è impegnato con sincero convincimento nella memoria della Resistenza. Le donne e gli uomini della Resistenza erano una minoranza della società: tuttavia, della loro minorità numerica non hanno fatto una dimensione settaria, ma si sono aperti al confronto democratico e hanno permeato l’Italia repubblicana di quei valori per i quali avevano combattuto e per i quali i loro compagni erano morti: la Libertà, la Giustizia sociale, la Democrazia, la Pace. Un dono pagato a caro prezzo e offerto a tutti, che è diventato patrimonio di tutti.
Romano lo sapeva bene, e per questo aveva molto a cuore l’educazione dei giovani alla Costituzione. Perché era convinto che nella Costituzione si fosse trasfuso il meglio di quella pluralità di intenti, di sforzi e di ragioni collettive che singole storie di partigiani e partigiane avevano perseguito col proprio impegno. Era orgoglioso di quel dono, che anche lui aveva contribuito, con il suo slancio di ragazzo, a costruire: era certo che nei valori della Costituzione si fossero saldati gli elementi più alti del pensiero morale e civile della Resistenza.
Figure come la sua, così come quelle di Cesare Trebeschi, di Carla Leali, di Agape Nulli, di padre Giulio Cittadini – per limitarci ad alcune di quelle che siamo stati costretti a salutare in quest’ultimo anno – ci rendono fieri di essere bresciani, e ci rendono orgogliosi di averli conosciuti, frequentati, amati.
Si dirà che l’implacabile legge del Tempo c’impedisce di avere con noi per sempre donne e uomini di quella caratura. Ogni volta che qualcuno ci lascia, ci sentiamo un po’ più orfani e un po’ più soli. Emozioni e sentimenti diversi si rimescolano nostri cuori: da un lato il dolore del distacco e il senso d’impotenza davanti al mistero della morte; dall’altro, l’enorme gratitudine per le singole e diverse occasioni nelle quali si è potuto attingere alla loro esperienza, ascoltare il loro parere, sperimentare la loro accoglienza, ricevere le lezioni di vita – spesso inconsapevoli ma profonde, di quelle che segnano dentro – che costituivano la loro testimonianza e il loro esempio.
Già, l’esempio. Quello che, per dirla col Foscolo, dovrebbe accendere gli animi forti a “egregie cose”. Siamo ancora in grado di fermarci ad ascoltare e, soprattutto, a riflettere sugli esempi che ci vengono da questi giganti del nostro tempo? Abbiamo – abbiamo avuto, avremo mai – la forza di condurre avanti, senza di loro, quella difficile missione che si chiama “memoria”?
Prima di affrettarci a prendere sulle nostre spalle il giogo oneroso e difficile della testimonianza, chiediamoci se siamo sufficientemente umani per farlo.
Perché Romano, Cesare, Carla, Agape, padre Giulio e tutti gli altri erano, prima di ogni altra cosa, capaci di umanità: un’attitudine che avevano sviluppato in un momento storico in cui il totalitarismo di un Partito-Stato disumanizzava ciò che era umano. Una condizione e un pericolo che, forse con cause e manifestazioni diverse, rischiamo di vedersi riproporre ancora, magari in modi più subdolo e insinuante, nella società di oggi.