Tabella dei contenuti
1. Premessa
Emblema della Resistenza cattolica, le Fiamme Verdi sono state delle formazioni partigiane nate a Brescia nel 1943; il nome si riferisce alle mostrine verdi degli Alpini, dai cui reparti proveniva la gran parte degli ex-militari che costituirono le primissime compagini. Fu soprattutto nella Lombardia orientale – nelle Valli, in particolare – e a Reggio Emilia che operarono, affondando le radici nel cattolicesimo sociale, nella Chiesa e in tutte le organizzazioni ecclesiastiche del luogo. Da queste parti, le altre formazioni ebbero un peso molto minore; comprese quelle organiche al Partito Comunista.
2. I fondatori e la base ideale
Sorte grazie all’iniziativa di Gastone Franchetti, tenente degli Alpini, e di Rino Dusatti, le Fiamme Verdi furono fin da subito operative nelle valli bresciane e costituite da tre battaglioni facenti capo al generale Luigi Masini: il “Valcamonica”, il “Valsabbia” e il “Valtrompia”. L’intera organizzazione prese le mosse da una riunione tenuta a casa dell’ing. Mario Piotti il 30 novembre del 1943. Durante questa seduta furono anche nominati i comandanti dei tre battaglioni (rispettivamente, Ferruccio Lorenzini, Giacomo Perlasca, Peppino Pelosi) e steso il regolamento.
Si trattava, più che altro, di un manifesto ideologico volto a evidenziare gli obiettivi profondamente militari delle Fiamme Verdi e a definirne un’azione orientata alla liberazione dagli occupanti nazi-fascisti piuttosto che a perpetuare finalità politiche o partitiche. Queste ultime, anzi, erano marginalizzate e rifiutate per dare risalto al solo e unico motto dell’organizzazione: «Morte al fascismo; libertà all’Italia».
Il proselitismo dei diversi partiti – e ogni dibattito a esso inerente – era fortemente respinto e considerato negativo in quanto suscitatore di divisioni rispetto al compito primario della lotta di liberazione, che richiedeva, piuttosto, coesione e unità di intenti.
Le formazioni partigiane cattoliche erano, dunque, ben lontane dal perseguire una strutturazione finalizzata all’intruppamento in movimenti politici su base ideologica; per questo all’interno delle organizzazioni cattoliche militavano popolari, comunisti, socialisti, azionisti, liberali di Giustizia e libertà, badogliani e semplici cittadini. Vi era, quindi, una straordinaria varietà di posizioni.
Si leggano, per comprendere meglio, i seguenti stralci dello Schema di discussione di un programma ricostruttivo ad ispirazione cristiana[1] tracciato da Teresio Olivelli:
Che cosa vogliamo:
1. Libertà: di pensare, di esprimersi, di organizzarsi, di partecipare alla formazione della volontà della comunità.
2. Uguaglianza: non astratta, ma concreta […]
3. Il lavoro in tutte le sue forme esprimerà nella società il valore della persona e l’adempimento del suo principale dovere politico.
Da ciascuno, secondo le sue attitudini, a ciascuno secondo i suoi meriti. […]
Che cosa ripudiamo:
1. La dittatura, lo statalismo mortificatore.
La guerra come mezzo di affermazione dei propri diritti, così tra le nazioni come fra le classi.
2. Il privilegio della nascita e dell’oro, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. […]
4. Le forme di produzione capitalistica che fanno del lavoro una merce e subordinano a fini non propri l’attività dell’operaio, facendone un proletario. L’anticristiana divisione della società in classi economicamente privilegiate le une, diseredate le altre […].
3. Finalità dell’azione partigiana delle FF.VV.
Ma se ci fu un collante ideologico, assieme all’idea che solo la propaganda contro il fascismo e gli occupanti poteva essere tollerata, era la concezione di fondo per la quale la battaglia andava svolta contro il fascismo e non contro i fascisti. La dignità della persona, dunque, assieme ai suoi diritti pre-politici erano prevalenti rispetto ad ogni categorizzazione di tipo politico o partitico. Il pentimento, la conversione, la redenzione – principi appartenenti alla tradizione della cultura cattolica – non cessarono mai di essere riconosciuti e predicati.
La storiografia locale successiva – soprattutto quella d’impronta marxista[2] – dipinse, poi, l’attività delle Fiamme Verdi come dominata da un perenne attendismo, descrivendo la resistenza cattolica come sostanzialmente immobile nell’attesa degli Alleati e strategicamente orientata a non alienarsi, dopo la guerra, l’appoggio politico dei gruppi moderati e conservatori. Quanto questa tesi sia inadeguata lo dimostrano, tra le altre cose, gli studi compiuti da Rolando Anni sulla Resistenza bresciana[3], i quali, ancora oggi, costituiscono la ricostruzione storica più precisa e documentata di tutti gli eventi che riguardarono gli anni dal ’43 al ’45 a Brescia e provincia.
Del resto, già Giorgio Bocca non mancò di riconoscere che «senza l’aiuto del clero, tre quarti della pianura padana – Piemonte, Lombardia, Veneto – sarebbero rimasti chiusi e difficilmente accessibili alla ribellione»[4].
4. I primi passi
Fu dopo un colloquio tenuto a Milano tra Enzo Petrini e Ferruccio Parri che le Fiamme Verdi furono riconosciute dal CLNAI come organizzazioni apolitiche autonome e iniziarono le operazioni militari sul suolo di loro competenza: la Lombardia orientale.
Gli esordi furono piuttosto confusi e titubanti, dominati da una sostanziale assenza di strategia e guidati dall’intuito quando non dall’improvvisazione.
L’influenza di Teresio Olivelli e l’organizzazione militare di Romolo Ragnoli, comandante prima delle brigate e poi delle divisioni in Valle Camonica, si fecero, però, sentire presto – sulle Fiamme Verdi e sulla Resistenza bresciana in genere.
L’attività di Olivelli è legata principalmente al giornale clandestino Il Ribelle, da lui fondato e diretto insieme a Claudio Sartori, attraverso il quale divulgò i principi ideali dei partigiani cattolici nella lotta al nazi-fascismo. Fu, inoltre, il tramite per i contatti con il centro di Milano e tra gli organizzatori più attivi delle Fiamme Verdi.
Queste, almeno fino alla primavera del 1944, restarono costituite in gruppi molto mobili al loro interno e sempre pronte a riaggregarsi e organizzarsi in forme differenti. I vari gruppi erano identificati con una lettera che li assimilava al battaglione (C per Valle Camonica, S per Valle Sabbia, T per Valle Trompia) seguita da un numero che, invece, individuava il singolo gruppo. Nell’estate del 1944 gruppi e battaglioni furono interamente riorganizzati e raggruppati nella divisione “Tito Speri”, comandata da Romolo Ragnoli insieme al vicecomandante Lionello Levi Sandri, al commissario politico Angelo Cemmi e all’ispettore Enzo Petrini. Al suo interno si muovevano quattro brigate: la “Schivardi”, la “Lorenzini”, la “Dieci Giornate” e la “Perlasca”.
Nell’aprile del 1945, però, venne tutto nuovamente riorganizzato in due divisioni così strutturate: la “Tito Speri” che contava le brigate “Schivardi”, “Tosetti”, “Lorenzini”, “Cappellini”, “Lorenzetti”; e la “Astolfo Lunardi” formata da “Perlasca”, “Margheriti”, “Dieci Giornate” e “Secchi”.
Anche se fare un conto dei partigiani non è operazione sicura né semplice, Rolando Anni, fondandosi sui documenti conservati nell’Archivio storico della Resistenza Bresciana (oggi Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’Età contemporanea presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Brescia) e sulle stime di storici studiosi ha mostrato che il numero dei ribelli aderenti alle Fiamme Verdi era maggiore di tutte le altre formazioni messe insieme[5].
Note:
[1] In A. Caracciolo, Teresio Olivelli, La Scuola, Brescia, 19753, pp. 216-221.
[2] Cfr., ad esempio, M. Ruzzenenti, Il movimento operaio bresciano nella Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp. 74-5 e Id., La 122a brigata Garibaldi e la Resistenza nella Valle Trompia, Nuova Ricerca, Brescia, 1977, pp. 18-19.
[3] Cfr., soprattutto, II cammino della libertà. Documenti della Resistenza bresciana, a cura di R. Anni, Istituto storico della Resistenza bresciana, Brescia, 1995; R. Anni, Storia della Resistenza bresciana 1943-1945, Morcelliana, Brescia, 2005, soprattutto pp. 41-49; Id., Dizionario della Resistenza bresciana, 2 voll., Morcelliana, Brescia, 2009; Id., Un ponte fra dittatura e democrazia. Brescia e la sua provincia nelle carte del CLN (1945-1946), Franco Angeli, Milano, 2009 e i numerosi saggi pubblicati nella serie degli «Annali» dell’Istituto storico della Resistenza bresciana, prima, e dell’Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’Età contemporanea, ora.
[4] G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Milano, Mondadori, 1995, p. 155.
[5] Anni stima che i partigiani aderenti alle Fiamme Verdi fossero circa 2.800, circa 1.000 quelli aderenti alle brigate “Garibaldi”, 180 delle formazioni “Giustizia e Libertà”, 185 raccolti nella brigata “Matteotti” e 864 isolati e autonomi; cfr. Id., Storia della Resistenza bresciana, cit., pp. 91-92; si veda anche A. Fappani, La Resistenza bresciana. Appunti per una storia, 3 voll., Squassina, Brescia, 1962, III. Estate 1944 – aprile 1945, p. 338 e Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti, a cura di G. De Luna, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 415-416.