Associazione

Brescia

aderente alla

Federazione Italiana Volontari della Libertà

Menu

Le Fiamme Verdi

Tabella dei contenuti

1. Premessa

Emblema della Resistenza cattolica, le Fiamme Verdi sono state delle formazioni partigiane nate a Brescia nel 1943; il nome si riferisce alle mostrine verdi degli Alpini, dai cui reparti proveniva la gran parte degli ex-militari che costituirono le primissime compagini. Fu soprattutto nella Lombardia orientale – nelle Valli, in particolare – e a Reggio Emilia che operarono, affondando le radici nel cattolicesimo sociale, nella Chiesa e in tutte le organizzazioni ecclesiastiche del luogo. Da queste parti, le altre formazioni ebbero un peso molto minore; comprese quelle organiche al Partito Comunista.

Partigiani in montagna (1945) © Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’età contemporanea
Partigiani in montagna (1945) | © Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’età contemporanea

2. I fondatori e la base ideale

Sorte grazie all’iniziativa di Gastone Franchetti, tenente degli Alpini, e di Rino Dusatti, le Fiamme Verdi furono fin da subito operative nelle valli bresciane e costituite da tre battaglioni facenti capo al generale Luigi Masini: il “Valcamonica”, il “Valsabbia” e il “Valtrompia”. L’intera organizzazione prese le mosse da una riunione tenuta a casa dell’ing. Mario Piotti il 30 novembre del 1943. Durante questa seduta furono anche nominati i comandanti dei tre battaglioni (rispettivamente, Ferruccio Lorenzini, Giacomo Perlasca, Peppino Pelosi) e steso il regolamento.

Si trattava, più che altro, di un manifesto ideologico volto a evidenziare gli obiettivi profondamente militari delle Fiamme Verdi e a definirne un’azione orientata alla liberazione dagli occupanti nazi-fascisti piuttosto che a perpetuare finalità politiche o partitiche. Queste ultime, anzi, erano marginalizzate e rifiutate per dare risalto al solo e unico motto dell’organizzazione: «Morte al fascismo; libertà all’Italia».

Il proselitismo dei diversi partiti – e ogni dibattito a esso inerente – era fortemente respinto e considerato negativo in quanto suscitatore di divisioni rispetto al compito primario della lotta di liberazione, che richiedeva, piuttosto, coesione e unità di intenti.

Le formazioni partigiane cattoliche erano, dunque, ben lontane dal perseguire una strutturazione finalizzata all’intruppamento in movimenti politici su base ideologica; per questo all’interno delle organizzazioni cattoliche militavano popolari, comunisti, socialisti, azionisti, liberali di Giustizia e libertà, badogliani e semplici cittadini. Vi era, quindi, una straordinaria varietà di posizioni.

Si leggano, per comprendere meglio, i seguenti stralci dello Schema di discussione di un programma ricostruttivo ad ispirazione cristiana[1] tracciato da Teresio Olivelli:

Che cosa vogliamo:

1. Libertà: di pensare, di esprimersi, di organizzarsi, di partecipare alla formazione della volontà della comunità.

2. Uguaglianza: non astratta, ma concreta […]

3. Il lavoro in tutte le sue forme esprimerà nella società il valore della persona e l’adempimento del suo principale dovere politico.

Da ciascuno, secondo le sue attitudini, a ciascuno secondo i suoi meriti. […]

Che cosa ripudiamo:

1. La dittatura, lo statalismo mortificatore.

La guerra come mezzo di affermazione dei propri diritti, così tra le nazioni come fra le classi.

2. Il privilegio della nascita e dell’oro, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. […]

4. Le forme di produzione capitalistica che fanno del lavoro una merce e subordinano a fini non propri l’attività dell’operaio, facendone un proletario. L’anticristiana divisione della società in classi economicamente privilegiate le une, diseredate le altre […].

3. Finalità dell’azione partigiana delle FF.VV.

Ma se ci fu un collante ideologico, assieme all’idea che solo la propaganda contro il fascismo e gli occupanti poteva essere tollerata, era la concezione di fondo per la quale la battaglia andava svolta contro il fascismo e non contro i fascisti. La dignità della persona, dunque, assieme ai suoi diritti pre-politici erano prevalenti rispetto ad ogni categorizzazione di tipo politico o partitico. Il pentimento, la conversione, la redenzione – principi appartenenti alla tradizione della cultura cattolica – non cessarono mai di essere riconosciuti e predicati.

La storiografia locale successiva – soprattutto quella d’impronta marxista[2] – dipinse, poi, l’attività delle Fiamme Verdi come dominata da un perenne attendismo, descrivendo la resistenza cattolica come sostanzialmente immobile nell’attesa degli Alleati e strategicamente orientata a non alienarsi, dopo la guerra, l’appoggio politico dei gruppi moderati e conservatori. Quanto questa tesi sia inadeguata lo dimostrano, tra le altre cose, gli studi compiuti da Rolando Anni sulla Resistenza bresciana[3], i quali, ancora oggi, costituiscono la ricostruzione storica più precisa e documentata di tutti gli eventi che riguardarono gli anni dal ’43 al ’45 a Brescia e provincia.

Uno sguardo verso la libertà (1945) | © Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’età contemporanea
Uno sguardo verso la libertà (1945) | © Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’età contemporanea

Del resto, già Giorgio Bocca non mancò di riconoscere che «senza l’aiuto del clero, tre quarti della pianura padana – Piemonte, Lombardia, Veneto – sarebbero rimasti chiusi e difficilmente accessibili alla ribellione»[4].

4. I primi passi

Fu dopo un colloquio tenuto a Milano tra Enzo Petrini e Ferruccio Parri che le Fiamme Verdi furono riconosciute dal CLNAI come organizzazioni apolitiche autonome e iniziarono le operazioni militari sul suolo di loro competenza: la Lombardia orientale.

Gli esordi furono piuttosto confusi e titubanti, dominati da una sostanziale assenza di strategia e guidati dall’intuito quando non dall’improvvisazione.

L’influenza di Teresio Olivelli e l’organizzazione militare di Romolo Ragnoli, comandante prima delle brigate e poi delle divisioni in Valle Camonica, si fecero, però, sentire presto – sulle Fiamme Verdi e sulla Resistenza bresciana in genere.

L’attività di Olivelli è legata principalmente al giornale clandestino Il Ribelle, da lui fondato e diretto insieme a Claudio Sartori, attraverso il quale divulgò i principi ideali dei partigiani cattolici nella lotta al nazi-fascismo. Fu, inoltre, il tramite per i contatti con il centro di Milano e tra gli organizzatori più attivi delle Fiamme Verdi.

Queste, almeno fino alla primavera del 1944, restarono costituite in gruppi molto mobili al loro interno e sempre pronte a riaggregarsi e organizzarsi in forme differenti. I vari gruppi erano identificati con una lettera che li assimilava al battaglione (C per Valle Camonica, S per Valle Sabbia, T per Valle Trompia) seguita da un numero che, invece, individuava il singolo gruppo. Nell’estate del 1944 gruppi e battaglioni furono interamente riorganizzati e raggruppati nella divisione “Tito Speri”, comandata da Romolo Ragnoli insieme al vicecomandante Lionello Levi Sandri, al commissario politico Angelo Cemmi e all’ispettore Enzo Petrini. Al suo interno si muovevano quattro brigate: la “Schivardi”, la “Lorenzini”, la “Dieci Giornate” e la “Perlasca”.

Nell’aprile del 1945, però, venne tutto nuovamente riorganizzato in due divisioni così strutturate: la “Tito Speri” che contava le brigate “Schivardi”, “Tosetti”, “Lorenzini”, “Cappellini”, “Lorenzetti”; e la “Astolfo Lunardi” formata da “Perlasca”, “Margheriti”, “Dieci Giornate” e “Secchi”.

Anche se fare un conto dei partigiani non è operazione sicura né semplice, Rolando Anni, fondandosi sui documenti conservati nell’Archivio storico della Resistenza Bresciana (oggi Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’Età contemporanea presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Brescia) e sulle stime di storici studiosi ha mostrato che il numero dei ribelli aderenti alle Fiamme Verdi era maggiore di tutte le altre formazioni messe insieme[5].

 


Note:

[1] In A. Caracciolo, Teresio Olivelli, La Scuola, Brescia, 19753, pp. 216-221.

[2] Cfr., ad esempio, M. Ruzzenenti, Il movimento operaio bresciano nella Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp. 74-5 e Id., La 122a brigata Garibaldi e la Resistenza nella Valle Trompia, Nuova Ricerca, Brescia, 1977, pp. 18-19.

[3] Cfr., soprattutto, II cammino della libertà. Documenti della Resistenza bresciana, a cura di R. Anni, Istituto storico della Resistenza bresciana, Brescia, 1995; R. Anni, Storia della Resistenza bresciana 1943-1945, Morcelliana, Brescia, 2005, soprattutto pp. 41-49; Id., Dizionario della Resistenza bresciana, 2 voll., Morcelliana, Brescia, 2009; Id., Un ponte fra dittatura e democrazia. Brescia e la sua provincia nelle carte del CLN (1945-1946), Franco Angeli, Milano, 2009 e i numerosi saggi pubblicati nella serie degli «Annali» dell’Istituto storico della Resistenza bresciana, prima, e dell’Archivio storico della Resistenza bresciana e dell’Età contemporanea, ora.

[4] G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Milano, Mondadori, 1995, p. 155.

[5] Anni stima che i partigiani aderenti alle Fiamme Verdi fossero circa 2.800, circa 1.000 quelli aderenti alle brigate “Garibaldi”, 180 delle formazioni “Giustizia e Libertà”, 185 raccolti nella brigata “Matteotti” e 864 isolati e autonomi; cfr. Id., Storia della Resistenza bresciana, cit., pp. 91-92; si veda anche A. Fappani, La Resistenza bresciana. Appunti per una storia, 3 voll., Squassina, Brescia, 1962, III. Estate 1944 – aprile 1945, p. 338 e Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti, a cura di G. De Luna, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 415-416.